mercoledì 28 aprile 2010

Abortito a 22 settimane per un labbro leporino...


È rimasto aggrappato alla vita per molte ore il feto di 22 settimane sopravvissuto ad un interruzione di gravidanza praticata per una malformazione nell’ospedale di Rossano (Cosenza).

Erano 22 ore o poco meno dall’intervento praticato sabato mattina all’una circa sulla madre, una donna alla prima gravidanza, nel reparto di ostetricia, quando intorno alle 11.15 di ieri mattina, il cappellano dell’ospedale don Antonio Martello, si è accorto che il feto mostrava chiari segni di vita. Da qui l’allarme e la corsa per la vita in ambulanza, con un pediatra e un rianimatore, verso il reparto di neonatologia dell’ospedale di Cosenza dove il cuoricino del piccolo, dopo circa due giorni, ha cessato di battere.

A Rossano, città di circa 35 mila abitanti affacciata sullo Ionio, all’indomani della vicenda che ha scosso l’ambiente sanitario non si parla d’altro. E su tutti grava un interrogativo: come è possibile che sia accaduto tutto questo? Se lo chiedono anche gli agenti del commissariato di polizia che, su disposizione della Procura, hanno già acquisito la cartella clinica e sentito il cappellano del nosocomio e i medici che hanno effettuato l’intervento.

In particolare si sta cercando di accertare se ci sono state negligenze, da parte del personale medico, che avrebbe dovuto accertarsi del decesso subito dopo l’interruzione di gravidanza. Sconcerto e incredulità anche tra i medici. «La legge prevede l’aborto terapeutico - si lascia sfuggire uno dei sanitari che intende mantenere l’anonimato - ma nei casi in cui il feto dovesse rimanere in vita va almeno tenuto in una termoculla».

Don Martello, il sacerdote che ha lanciato l’allarme sul feto ancora in vita ha la bocca cucita. «Parla la Curia» dice. E dalla sede arcivescovile i toni sono molto duri: «appare sconcertante - è scritto in un comunicato - l’arbitraria superficialità dei sanitari nell’omettere qualsiasi tipo di cura e rianimazione del bambino il quale, nonostante ciò, ha continuato a sopravvivere autonomamente». Per l’arcivescovo mons. Santo Marcianò, inoltre, «il caso deve portare la comunità civile a riflettere sulla drammaticità rappresentata dall’aborto in quanto soppressione di un essere umano e, nello specifico, sulla illiceità del definirlo "terapeutico"».

(fonte: La Stampa, 26 aprile, 2010)